Il paese viene armonicamente narrato e descritto da un pensiero del Prof. Lino Befacchia, in occasione del libro e della mostra fotografica realizzata dalla Sign.ra Anna Maria Matone. Ricordando che alcune foto sono presenti nella galleria fotografica del sito. "Rapino nel mio cuore" Occorre da subito eliminare nell’approccio alle immagini da A.M Matone il sentimento elegiaco dell’emigrante, la celebrazione della nostalgia per la terra madre che nutre ed alimenta la speranza del ritorno in quanti che, per una sorta o per umana vicenda, vivono in altre contrade. “Rapino nel cuore” infatti, più che l’omaggio al paese delle origini conservato nella memoria, è bensì l’esperienza intellettuale del tempo stazionario colto nella metafisicità del quotidiano vivere. Il ritorno a casa viene quindi vissuto non come “abbeveramento” alle acque originarie, ma come riesplorazione di un mondo che riesce ancora a sottrarsi alle logiche postindustriali, dominate dalla legge della consunzione irreversibile; non come riannodamento delle trame vitali bensì come messa tra parentesi del fluire della vita moderna generata e consumata nel breve istante. Sicchè il ritorno al paese delle origini costituisce l’affermazione che il mondo non è ancora totalmente globalizzato, e dove sistemi e moduli socio-culturali sopravvivono indifferenti ai bagliori ostentati dei media e oggettivati di prevalenza nelle forme offensive delle metropoli e dei suoi feticci: dal narcisismo del consumo, all’edonismo dissennato, alla gaiezza gratuita e di maniera. Il “paese” è la testimonianza che in altri luoghi la vita continua e genera nuova vita; che esiste un altro mondo dove le cose vivono nel tempo e non sono scagliate dal tempo, dove il tempo lascia le sue tracce che non sono dissipate dalle strategie chirurgiche e bioniche; e dove l’accadimento quotidiano è scandito dal giorno e dalla notte, nell’avvicendamento ordinato e composto delle stagioni che si susseguono le une alle altre. Il paese allora rappresenta l’altro luogo, dove sembra non affluisca il moderno con i suoi strategici artifici, dalla simulazione pubblicitaria alle coreografie commerciali. La teoria dei simulacra non contamina quest’altra parte del mondo: in esso il lavoro non è virtuale, ma sofferenza e fatica; la vecchiaia non è debellata o esorcizzata, che anzi, inerpicata ed incisa nelle rughe dei visi solo in apparenza disfatti, è offerta all’obiettivo con semplicità, orgoglio e forza di stampo prometeico. I muri non sono lustri cristalli, ma rugose vestigia che nelle loro rugosità sono capaci di eternare l’ingegno e l’operosità dell’uomo che con la natura ha dialogato ed intrecciato lo scambio vitale ( cfr. Il vitellino che si disseta; l’interno domestico con salcicce, il sacrificio animale). L’umanità non ozia, non si trascina nei stanchi bagliori del crepuscolo, ma attende che il ciclo quotidiano si compia per riprendere le finalizzate fatiche. Il tempo viene vissuto così come intercalare tra un lavoro ed un altro, un agire ed il successivo ( cfr. D’estate un convivio ), mentre la fiduciosa attesa che il mondo è la reale, costante, immobile è affermata dalle immagini dei paesaggi che posseggono una carducciana forza poetica. In un mondo siffatto nulla appare violento, perché la morte non è vissuta come estinzione e annullamento ma come forma altra di vita, come recupero dell’essere singolo al grande ciclo cosmico. Tutto sembra ricondotto al senso poetico delle cose, anche la morte quindi sembra trasfigurata, il cimitero è il luogo dove il dialogo continua e dove l’evento esterno produce talvolta effetti deleteri. E a tali effetti si guarda con la serena convinzione che sono inessenziali segni, marginalità, accadimenti insignificanti. L’assenza del cronista, che grida al vento l’isterico annuncio, ri-assegna al silenzio il compito di comunicare e di partecipare la buona e la cattiva novella. La Matone in questo ritorno usa la tecnica narrativa più scarna ed efficace, il lessico fotografico più essenziale. Non è interessante alle fumose aggettivazione del colore, alle dissolvenze, agli artifici tecnici; non ricorre a macchinazione per “ tentare ardui attraversamenti” dell’essere. Ella resta fissa di fronte a questi spaccati di umanità e di natura con la forte consapevolezza che il mondo non va interpretato ma offerto nella sua pregnanza; non indaga significati metafisici, non indugia in scorribande “ superficiali e materiche” così diffuse nell’arte contemporanea, ma coglie e trasferisce con la semplicità disarmante dell’occhio umano quanto vede e quanto intellettualmente ha significato. L’uso del b/n non è allora casuale, è strategico: non ha bisogno di linguaggi allusivi, di interiezioni od esclamativi : in fondo la Matone non vuole stupire con artifici: tralascia metafore e simbologie: nella costruzione delle immagini, quasi sempre opera per colpi d’occhio e mai o solo occasionalmente come meditata composizione; la narrazione è scarna, essenziale, talvolta anche cruda, mai ripetitiva perciò mai retorica. La Matone con questa galleria di immagini si apre a nuove esperienze artistiche dalle Quali è lecito attendersi ulteriori e meritati successi. Lino Befacchia
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